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Giorgio Agamben e luso dei corpi
di Roberto Fai
20 aprile 2017*
Il pensiero, ogni pensiero, ha una particolare natura: venendo offerto agli altri per il fatto stesso di essere messo-in-opera , esso si ex-pone come un dono universale, gioca ed assolve al ruolo di “potenza generica dell’umanità”: dono, alla comunità intera! Dal che inerisce che, pur riconoscendo che l’atto del pensare espressione della sua potenza è ascrivibile alla contingenza di un esercizio singolare (“quel” pensiero e “quel” pensatore), il pensato che ne viene fuori frutto di quel determinato pensatore , per ciò stesso si espone, aperto, al mondo, quale “luogo comune” universale: qualcosa che, nel suo carattere “impersonale” è donato-accessibile a tutti, senza essere proprietà di nessuno: un bene comune, nei termini in cui oramai questa espressione è invalsa nel suo significato corrente. Pertanto, si potrebbe ben dire che non c’è opera prassi più “produttiva” del pensare stesso. Il che conferma, come incontestabile e non si può che apprezzarne sia la plasticità sia l’acume della formula , l’affermazione di Heidegger, secondo cui «il pensiero agisce in quanto pensa»: l’atto del pensare è per ciò stesso la sua prassi! Da cui si arguisce che teoria e prassi conoscono il loro legame, mantenendo, a un tempo, la loro distinzione. Ed è proprio quel “fra”, quella “soglia etica” che congiunge/divide teoria e prassi, forma e vita, zoè e bios, potenza e atto, anima e corpo, opera e inoperosità , che è chiesto al Dasein di saper abitare: in quel “raddoppiamento” che è implicito nel fatto stesso che ethos ed abitare dicono il medesimo. Pertanto, di fronte alla domanda fondamentale del problema dell’Essere e della polis, il Dasein è chiamato/convocato in prima persona affinché “l’appropriazione” (Ereignis) di sé medesimo costituisca il suo compito permanente, il peso più grande essendo, egli, il suo stesso “fardello” (così nei Beiträge, Heidegger). È proprio questo “fardello” che il Dasein deve prendere in carico, per essere il proprio Ci (“Essere il proprio Ci”). Si capisce pertanto non solo che ontologia e politica si tengono in un intreccio inestricabile, bensì, conseguentemente, che il Dasein (l’esser-ci) è esposto dinanzi al fatto (e alla consapevolezza) che il suo è un agire che, nell’immanenza che lega inestricabilmente l’essenza all’esistenza, può avere solo il carattere e il compito di una quotidiana esemplarità infinita.
Sono queste solo alcune delle tante suggestive sollecitazioni etico-politiche che insorgono nel corso della lettura del recente, straordinario saggio di Giorgio Agamben, “L’uso dei corpi” (Neri Pozza, 2014), così ricco di temi, questioni e profondissime concettualità “uso”, forma-di-vita, paesaggio, stile, “inappropriabile”, inoperosità, “potenza destituente”, ecc. , sì da configurare questa sua ultima fatica speculativa come un vero e proprio squarcio di luce, teso a far affermare nella sua ineludibile urgenza una nuova prassi politica. Consegnandoci questa sua densa opera di pensiero, Agamben dichiara in premessa non già di aver concluso “questa” sua ricerca che, nel quadro di un costante impegno filosofico di oltre quarant’anni, costituisce il cuore della sua riflessione dell’ultimo decennio , bensì di abbandonarla, per lasciarla così in eredità a tutti noi, o a chi riterrà di volerla proseguire, facendo di questa sua Gelassenheit (“abbandono”) la giuntura etica che lega fine dell’opera a scholé. Giunge pertanto a compimento o meglio: al suo radicale dis-velamento , con L’uso dei corpi, l’ampio ventaglio di domande e problemi (filosofici, politici, esistenziali) che Agamben aveva iniziato a porre, già dal 2005, a partire da quel progetto di ricerca che aveva preso corpo con Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, proseguito poi in questi anni con altre opere altrettanto decisive e innovative da Stato di eccezione a Il Regno e la Gloria; da Il sacramento del linguaggio a Quel che resta di Auschwitz; da Opus Dei. Archeologia dell’ufficio ad Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita.
Naturalmente, possiamo qui solo accennare di sfuggita a quei lavori decisivi (quali, Infanzia e storia; Stanze; Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività; La comunità che viene; Il tempo che resta. Un commento alla “Lettera ai Romani”; L’aperto. L’uomo e l’animale; ecc.), composti tra gli anni ’70 del ’900 e i primi anni 2000: lavori che, pur rivolti ad ambiti di ricerca, in parte differenti, contenevano già quel fil rouge in grado di anticipare e introdurre le “tracce” delle istanze che inaugureranno e andranno configurando, con Homo sacer, la complessa e stratificata archeologia genealogica che segna l’asse di ricerca dell’Agamben di questi ultimi decenni. La profondità e lo spessore della sua attività sono attestati dall’ampio riconoscimento della fama internazionale del filosofo, in virtù di una straordinaria competenza che spazia con grande acume e dovizia di conoscenza filologica dall’estetica alla teologia, dalla giurisprudenza all’etica, dalla filosofia politica alla linguistica.
Recensire un’opera di Agamben costituisce sempre un azzardo, una sorta di violenza al testo, per la stratificazione dei temi e delle categorie concettuali che ricorrono nei suoi lavori, per l’esigenza di dover “tradurre” la complessità dell’operazione di traslazione analogica che l’autore mette in opera, attraverso il suo scavo archeologico-genealogico, al fine di offrire quelle soglie di passaggio che possano aprire nuove possibilità per una politica-a-venire. È vero che tradurre è, di per sé, sempre un tradire, tuttavia, a contatto con le sue ricerche, il lavoro ermeneutico del recensore, dovendo operare una stringata riduzione del senso, si scontra inevitabilmente con un’operazione di semplificazione concettuale.
L’uso dei corpi dopo le prime pagine di un breve capitolo quasi-privato, dedicato a un suggestivo ricordo/omaggio a Guy Debord, con cui Agamben prova ad anticipare il senso dei temi che si snoderanno nelle successive 330 pagine del saggio si apre sottoponendo ad esame l’operazione concettuale di Aristotele il quale, non soltanto scinde e divarica anima e corpo, bensì delinea una doppia valenza del ruolo del corpo, declinandone le modalità “d’uso”, sino a teorizzare, di questo, una distinzione interna che si traduce in una duplice forma del fare. Da una parte, un fare qui, nel senso di usare qualcosa: ed è il caso dell’uso del “corpo dello schiavo” che vede (il corpo de) lo schiavo, assimilato a uno strumento o un suppellettile, nel senso che essendo lo schiavo, per Aristotele, «l’essere la cui opera è l’uso del corpo», è come se egli fosse legato al padrone come una sua “parte integrante”. Al punto che ciò che l’uso del suo corpo permette alle dirette dipendenze del padrone articola una forma del fare che non è scrivibile alla sfera della poiesis, consistente, quest’ultima, in quel “fare-usare” qualcosa, che si traduce in una produzione esterna di un oggetto, come ad esempio fa il falegname, l’artigiano, l’artista, che usano così i materiali a disposizione o di loro pertinenza/vocazione, al fine di creare l’opera/manufatto.
In tal senso, pur nell’evidente aporia derivante dalle considerazioni dello Stagirita che sancisce-teorizza la “schiavitù” per natura , nella formula di Aristotele («l’opera dello schiavo è l’uso del corpo»), l’espressione “uso del corpo” va intesa nel suo senso “non produttivo”, bensì pratico ascrivendo così il fare dello schiavo nella sua totale subordinazione al padrone, come una sorta di valore d’uso del suo corpo , sì da spingere Agamben a scrivere che «l’uso del corpo e l’assenza di opera dello schiavo [siano] qualcosa di più o, comunque, di diverso da un’attività lavorativa e che essi conservino o evochino il paradigma di un’attività umana che non è riducibile né al lavoro né alla produzione né alla prassi». Da quanto qui sinteticamente sostenuto, si coglie come Agamben possa affermare che dal momento che «l’uso del corpo si situa nella soglia indecidibile tra zoè e bios, tra la casa e la città, la physis e il nomos, è possibile che lo schiavo rappresenti la cattura nel diritto di una figura dell’agire umano che ci resta ancora da delibare».
Nell’aporetica antropologia aristotelica, lo schiavo rappresenta pertanto una vita non propriamente umana perché non libera , il cui uso rende possibile agli altri il bios politikos, cioè la vita veramente umana appunto: politica. Lo schiavo incarna così quella nuda vita che abita la soglia che separa e congiunge zoè e bios, physis e nomos. Non per nulla, nella cultura e nell’esperienza greca era ignota la nozione di “lavoro” come abbiamo sperimentato e conosciuto noi moderni, essendo concepita, l’attività dello schiavo, non come un ergon (il “prodotto” di un’opera), bensì come un mero uso del corpo. Sì da ascrivere il corpo (e il suo uso) dello schiavo nell’orbita di una mera “strumentalità tecnica”, il cui fine è intrinseco al fatto stesso del suo uso, delineando così in Aristotele e nella grecità in generale l’idea di «una vita umana che si svolge interamente nella sfera dell’uso (e non in quella della produzione)». Il che spinge Agamben a sostenere il fatto che, nel processo dell’antropogenesi, da una parte la “cattura giuridica” della schiavitù nel mondo antico e, dall’altra, l’invenzione della “macchina-tecnica” nell’epoca moderna abbiano rappresentato i dispositivi attraverso cui una particolare modalità dell’uso avrebbe espresso per analogia e differenza la soglia di esclusione inclusiva o di inclusione escludente del vivente umano, in tutti i sensi. Da qui, Agamben, “aprendosi” così nella conclusione di questa prima parte del saggio il passaggio per “catturare” il legame circolare tra uso e cura tra Heidegger e Foucault , può ben concludere (e vale riportare l’ampia citazione) il suo straordinario esame genealogico ed ermeneutico con questo straordinario commento: «Lo schiavo è, da una parte, un animale umano (o un uomo-animale), dall’altra e nella stessa misura, uno strumento vivente (o un uomo-strumento). Lo schiavo costituisce, cioè, nella storia dell’antropogenesi, una duplice soglia: in essa la vita animale trapassa nell’umano, così come il vivo (l’uomo) trapassa nell’inorganico (nello strumento) e viceversa. L’invenzione della schiavitù come istituto giuridico ha permesso la cattura del vivente e dell’uso del corpo nei sistemi produttivi, bloccando temporaneamente lo sviluppo dello strumento tecnologico; la sua abolizione nella modernità ha liberato la possibilità della tecnica, cioè lo strumento vivente. Nello stesso tempo, in quanto il suo rapporto con la natura non è più mediato da un altro uomo, ma da un dispositivo, l’uomo si è allontanato dall’animale e dall’organico per avvicinarsi allo strumento e all’inorganico fin quasi a identificarsi con esso (l’uomo-macchina). Per questo in quanto aveva perduto, insieme all’uso del corpo, la relazione immediata alla propria animalità l’uomo moderno non ha potuto appropriarsi veramente della liberazione dal lavoro che le macchine avrebbero potuto procurargli. E se l’ipotesi di un nesso costitutivo tra schiavitù e tecnica è corretta, non stupisce che l’ipertrofia dei dispositivi tecnologici abbia finito col produrre una nuova e inaudita forma di schiavitù».
Situato pertanto l’uso del corpo dello schiavo in una soglia che approssima la pratica, o la forma-di-vita “dell’uso” a quella di “cura”, Agamben prova così a sviscerarne, analogicamente, le condizioni per pensare l’uso quale “categoria politica fondamentale”, liberandola da ogni intento-intenzione strumentale, ascrivendola alla sua originaria modalità di “godimento inoperoso” anticipando così, per via analogica, quell’inedita concettualità su cui si fonda il cuore della sua ricerca. Ed è una suggestiva disamina ermeneutica quella che Agamben sviluppa, mettendo in relazione circolare la cura di sé, esposta nelle sue opere da Foucault, con il problema “dell’appropriazione” di sé (Ereignis) da parte del Dasein, che Heidegger inizia a delineare già in Essere e tempo del ’27, riprendendolo nei successivi Beiträge del ’36. Lungo questo percorso che qui non possiamo che esporre in forma stringata , in cui sono messi in campo, con suggestivo ‘salto’ analogico, la strategia francescana (ampiamente delineata in Altissima povertà) e Walter Benjamin, Husserl e Lévinas, Spinoza e Hölderlin, e ancora Hedegger e, per finire, l’esperienza singolare del “paesaggio”, la ricerca di Agamben ha modo di rafforzare ulteriormente il senso dell’uso, declinandolo quale “categoria dell’inoperosità”, quale “forma-di-vita” e prassi specificamente umane, in grado di disattivare quei dispositivi giuridico-appropriativi dal momento che «comune non è mai una proprietà, ma solo l’inappropriabile», così Agamben che hanno contribuito a deformare, lungo l’intero tragitto della modernità, l’ethos (l’abito) del vivente umano, stante che «l’uso è la forma in cui l’abito si dà esistenza, al di là della semplice opposizione tra potenza e essere-in-opera. E se l’abito è, in questo senso, sempre già in uso di sé e se questo […] implica una neutralizzazione dell’opposizione soggetto/oggetto, allora non vi è qui posto per un soggetto proprietario dell’abito, che possa decidere di metterlo o non metterlo in opera. Il sé si costituisce nella relazione d’uso, non è un soggetto, non è altro che questa relazione».
Solo a partire da questa profonda consapevolezza, il concetto (e una “pratica”) di vita “vita”, che «non è una nozione medico-scientifica, bensì un concetto filosofico-politico» e il suo riverbero diretto nella dimensione politica (nella configurazione dello spazio della polis) possono rivelarsi in tutta la loro portata dirompente, nell’auspicio di poter disattivare i dispositivi della macchina biopolitica dell’Occidente, che si è fondata e «si fonda su una divisione della vita, che, attraverso una serie di cesure e di soglie (zoè/bios, vita insufficiente/vita autarchica, famiglia/città) acquista un carattere politico di cui era all’inizio sprovvista [dal momento che]…. Noi abbiamo pensato finora la politica come ciò che sussiste grazie alla divisione e alla articolazione della vita, come una separazione della vita da se stessa che la qualifica di volta in volta come umana, animale o vegetale. Si tratta ora di pensare invece una politica della forma-di-vita, della vita indivisibile dalla sua forma» (c. n.).
Giunto a questo snodo, l’esigenza di Agamben è adesso quella di configurare in modo più compiuto il concetto, la “categoria” di forma-di-vita. Termine che, analogicamente, l’autore aveva saggiato in una prima importante messa a punto in alcuni suoi decisivi studi già citati da “Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita” a “Opus Dei. Archeologia dell’ufficio” , presentandone l’insorgenza nell’esperienza di vita che con San Francesco era giunta al monachesimo e alla diffusione dell’ideale monastico nel cristianesimo medievale, pur se come noto , gli sviluppi teologici imposti dai Papi e dalla Chiesa, attraverso la totale disgiunzione tra “forma vitae” e “officium” tra vita e regole, agire e funzione, essere e prassi presero tutt’altra strada. Tenuto in debito conto delle profonde differenze tra Ecclesia e “Macchina politica” moderna, la traslazione analogica, operata anche in questo paradigma da Agamben, viene qui finalizzata a far cogliere quei processi e quella logica di “esclusione inclusiva”, o di “inclusione escludente” tra zoè e bios, tra physis e nomos, ecc… , attraverso cui, nella modernità si è avuta (e permane) la subordinazione della nuda vita ai dispositivi di sapere/potere attivati dalla “biopolitica” moderna.
In tal senso, per l’autore, la “forma-di-vita” va intesa allora «come una vita che non può mai essere separata dalla sua forma, una vita in cui non è mai possibile isolare e mantenere disgiunta qualcosa come una nuda vita». Quasi ad evocare quella che potremmo definire una biopolitica affermativa per analogia, ci piace mettere in campo questo concetto, espresso in questi anni da Roberto Esposito nell’ambito delle sue ricerche originali e innovative sulla biopolitica, dopo Foucault. In altri termini, l’espressione “biopolitica affermativa”, pur mantenendo inalterato e costitutivo il nesso tra bios e politica nella modernità, proverebbe a saggiarne le condizioni per connotarne/rovesciarne positivamente la relazione: non più l’assunzione della nuda vita entro dispositivi di potere, tali da esprimere una normatività (giuridica, politica) sulla vita, bensì far derivare ed estrinsecare “una normatività della vita stessa”: “forma-di-vita”, appunto! Pertanto, assegnando alla “politica a venire” l’ora della sua attualità, la conclusione di Agamben è che «occorre pensare invece la forma-di-vita come un vivere il proprio modo di essere, come inseparabile dal suo contesto, proprio perché non è in relazione, ma a contatto con esso».
Ed è proprio attraverso questo affinamento ermeneutico della categoria di “forma-di-vita” che Agamben, in un itinerario speculativo che interseca pensatori classici e suggestive concettualità da Plotino a Averroè, da “contemplazione” a ipostasi, dal neoplatonismo a Heidegger, da “ontologia dello stile” a questioni teologiche, da Foucault a Wittgenstein, da Paolo di Tarso al tema della “interruzione della legge” ad opera del messia, dal mito di Er a Kafka, in alcuni intrecci teoretici di straordinaria densità , può così giungere all’epilogo del capitolo finale capitolo «difficile, rischioso e complicato»: così Antonio Gnoli, recensendo, con notevole sforzo di sintesi, su La Repubblica, il saggio di Agamben , con cui conclude/consegna (a noi) la sua bellissima, intensa, altissima ricerca. Il capitolo in questione porta il titolo «Per una teoria della potenza destituente». Tema che, pur evocando già nel titolo, immediatamente, la sua diretta “determinazione” politica, sembrerebbe rovesciarsi come un guanto nel suo carattere opposto “impolitico”, giacché nel pensiero della modernità i mutamenti politici sono stati pensati dentro l’orbita le forme, la prassi, le dinamiche di un “potere costituente”, vale a dire con il riferimento/individuazione di una “potenza costituente”. Pertanto, “potenza destituente” lascerebbe, infatti, immaginare una piena e totale disattivazione di ogni prassi essenzialmente, politica , affinché la condizione umana possa reggersi, non più sull’opera, bensì sull’inoperosità. Non a caso, nelle pieghe della declinazione del concetto di “forma-di-vita”, inoperosità e contemplazione configurerebbero le inedite trame esistenziali del Dasein.
Tuttavia, considerato che «il problema del potere costituente mostra qui le sue irriducibili implicazioni ontologiche» (c. n.) come lo stesso Agamben scrive , se la “forma-di-vita”, che ne risulterebbe, sembra stringere in una medesima soglia/ethos potremmo dire: in quella forma di “uso-cura” che egli stesso ha saputo offrire nelle intricate pagine della sua ricerca “contemplazione” e “inoperosità”, “chi” (e come) avrebbe la forza affinché si possa pensare (e “praticare”) «l’esistenza della potenza senza alcuna relazione con l’essere in atto nemmeno nella forma estrema del bando e della potenza del non essere e l’atto non più come compimento e manifestazione della potenza nemmeno nella forma del dono di sé e del lasciar essere»? Vorremmo, in altri termini, provare a chiedere all’autore: «Chi è» che destituisce? O forse meglio: preso atto che non c’è un “soggetto”, come si ha destituzione? In che termini è possibile ipotizzare che sia il pieno e totale dispiegamento della forma-di-vita a destituire ogni “potenza”? È possibile immaginare un ordine o un nuovo “criterio”, per ricorrere a Carl Schmitt del politico, totalmente destituito da una potenza contemplativa?
È davvero possibile «pensare la politica al di fuori di ogni figura della relazione»? Se opera e politica conservano/manifestano, nella modernità, il loro inestricabile nesso ontologico, è possibile custodire-salvaguardare-praticare una politica inoperosa? Non è davvero impervio il compito di immaginare la praticabilità di una condizione una “politica inoperosa” , che appare assumere la sua forma ossimorica? E’ davvero possibile immaginare di poter rovesciare i perversi e circolari riverberi del dispositivo “diritto/violenza/diritto/violenza” ed è il carattere aporetico che Walter Benjamin aveva saputo cogliere nel suo saggio Sulla critica della violenza , che ogni potere costituente reca inevitabilmente nel suo stesso seno, sì da giungere ad una inoperosità contemplativa? Proprio condividendo quella radicale e straordinaria decostruzione dell’agire, cui accenna in un breve commento lo stesso Agamben sulla scia della poderosa interpretazione del pensiero di Heidegger da parte di Reiner Schürmann, dopo la fine dei princìpi epocali , al fine di strappare quest’ultimo (“l’agire”, l’opera) al dominio dell’idea di finalità e ad ogni forma di teleocrazia, davvero «il principio d’anarchia» di Schürmann di là dal suo apparente carattere ossimorico può essere declinato, o semplicemente “accolto” nei termini di una contemplazione inoperosa?
È pur vero, come Agamben aveva già saputo anticipare in un recente e breve testo-commento, davvero straordinario (Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi) anche qui: con quel paradigma dell’analogia, in grado di scavare in molte direzioni , teso a offrire un intreccio raffinato e persuasivo tra il tema decisivo in Max Weber (quello della complementarità e differenza tra “legalità” e “legittimità”) e la questione “teologico-politica” del katechon. Tuttavia, a nostro avviso, pur con le dovute differenze che le dinamiche e i processi dell’Ecclesia esprimono rispetto a ogni altro “corpo politico” (che spingevano Agamben a segnalare il valore esemplare del gesto del “gran rifiuto” e/o del “ritiro” destituente? di Benedetto XVI), il “primato” della legittimità non appare proprio la condizione (politica) che chiama in causa, e in azione, la forma di una “affermazione” operativa? Com’è pensabile che l’acquisizione di un diffuso (“comune”) giudizio di legittimità che non può certamente scaturire da una sorta di “autoriconoscimento” possa essere l’effetto di una mera contemplazione? La “legittimità” perché possa attivare il proprio riconoscimento non ha, infatti, come presupposto l’esemplarità di una fattiva operosità, la dinamica di una visibile prassi politica? Oppure si ritiene davvero che essa possa scaturire dalla mera condizione di una contemplazione inoperosa?
Lasciando in sospeso questi nostri interrogativi, che concludono con qualche rilievo critico il nostro ampio esame del saggio di Agamben, che qui consegniamo, resta il fatto che «l’arcano della politica» (così, Agamben) continua a conformare la nostra “forma-di-vita” tra zoè e bios, physis e nomos, “potenza” e “atto”, unendoli nella forma dell’esclusione inclusiva, o dell’inclusione escludente. E tenuto conto che questo “arcano” è «così intimo e vicino che, se cerchiamo di penetrarlo, ci lascia fra le mani soltanto l’inafferrabile, tediosa quotidianità», questa densissima ricerca di Agamben costituisce, a nostro avviso, uno dei punti critici più alti e intensi della filosofia politica (e non solo) occidentale: una delle rare prestazioni filosofiche che prova a offrire, a dis-velare le trame potenti e spesso nascoste di questo «arcano della politica». Ed è proprio per questa ragione che vada accolto l’invito dello studioso a proseguire e a continuare una ricerca, nel punto in cui egli la consegna a tutti noi.
* Prima pubblicazione: Kasparhauser | Etica, 2014
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